L'America che purtroppo in queste ore si angoscia per le gesta di un musulmano, autore della strage di gay in Florida, è la stessa che appena due giorni prima in gran parte aveva omaggiato la memoria di un altro musulmano. E tramite l'America, lo stesso ha fatto gran parte del restante mondo.
“Addio Alì, ci resta la tua libertà.
A Louisville pregano tutte le religioni”. Così titolava il
principale giornale italiano all'indomani del funerali di Mohammed
Alì. Dopo lunghi anni di malattia, il più grande pugile di tutti i
tempi se ne è andato tra due ali di stima universale: un
personaggio-simbolo, il cui gradimento fa guardare in cagnesco
all'opinione pubblica chiunque obietti sul suo spessore.
Muore da eroe conformista, ma in realtà
Cassius Clay si era imposto all'attenzione proprio per aver scelto di essere
assolutamente controcorrente. Rifiutandosi di andare in guerra,
affermando che “nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”, aveva
straordinariamente precorso i tempi rispetto ad un 'senso comune' che
avrebbe poi persuaso la società in cui viviamo nei decenni
successivi: sia in merito all'inutilità di quella guerra, sia alla
repulsione per ogni discriminazione razziale. Anche se, ahinoi, a
tutt'oggi il senso comune non è stato sufficiente a spazzar via
dalla terra né le guerre, né il razzismo.
All'epoca, quel pugile apparve
all'America (al mondo) clamorosamente fuorilegge, e quindi eccessivo:
in realtà quel suo strappo fu importante per il progresso del nostro
mondo almeno quanto lo furono per la storia della boxe i suoi titoli
conquistati sul ring (il che, è tutto dire). Ma all'epoca, il mondo
non se ne capacitava.
Non è la prima volta che uno strappo
temerario o (apparentemente) sprezzante alle regole del vivere civile
si rivela linfa primaria per quello stesso saper vivere in
collettività. E' solo un caso (o forse no?) che in questi giorni mi
sia trovato a leggere la storia del minatore Gildo Andreoni,
dichiarato (ampiamente) post mortem “Giusto tra le nazioni” per
aver salvato degli innocenti rischiando la propria vita, sotto il
Nazismo. E accanto alla sua, la vicenda di Don Lorenzo Milani: della
sua lettera ai cappellani militari (1965) in cui difendeva quelli che
erano disposti a sacrificare la propria libertà pur di non
compartecipare ad inutili massacri. Una lettera seguita dalla
pubblica indignazione e denuncia penale, e dal processo (vinto e poi
riperso in appello, dopo che la malattia l'aveva nel frattempo
spento).
La storia ha dimostrato che quel
'giusto' era giusto già allora, pur se indisciplinato rispetto
all'ordine del suo tempo. E il senso comune, nei decenni successivi
al tempo di Milani si è poi appropriato dell'obiezione di coscienza,
al punto da trasformarlo in quel 'servizio civile' che ha preso il
posto della leva obbligatoria.
Se Alì, Andreoni e Milani non avessero
'disobbedito' oggi non sarebbero ricordati per quel che sono stati. E il
nostro mondo sarebbe ancora più ingiusto di ciò che è.
Se tutto ciò fa 'giurisprudenza
morale', teoricamente allora qualsiasi precetto normativo può essere
messo in discussione. Una deduzione che è un terremoto per chi come
me crede nel valore delle regole condivise, nel “darsi dei limiti
per godere della libertà”. Anche in questo caso, forse, 'in media
stat virtus': ma dove cada la linea mediana è evidentemente
questione aperta. Secondo Milani, quando le regole diventano
aberrazione dei valori umani, o spirituali che dir sì voglia. E
allora, per esempio: è aberrazione il fisco che chiede le tasse ma
non rispetta lo Statuto del contribuente? Lo è la procedura di
accoglienza per un profugo prevista nel continente europeo?
Questioni molto aperte. Intanto io dico
grazie per ciò che quelle tre persone mi hanno trasmesso, seppure in
tempi e con sfumature diverse. E anche a chi me le ha fatto
conoscere. Buon ultimo, Paolo Bartalini che con le sue “Rime del
buon pane” mi ha portato a scoprire la vicenda di Milani.